Architettura dell’invenduto: 1.200.000 occasioni perse
Prologo dell’abbandono
Tuttavia descrivere non equivale a misurare: di per sé la descrizione prescinde dalla dimensione temporale, mentre la misura implica un’azione irreversibile che sperabilmente porta ad una informazione […] (Silvano Tagliagambe, 2008)
La condizione d’abbandono come quella di degrado, il concetto di periferia e spazio pubblico trovano nella disciplina architettonica un ampio margine di speculazione perché legati alla prassi del descrivere piuttosto che all’azione del misurare. Prassi di cui, ingenuamente, hanno approfittato sia il pensiero urbanistico sia quello architettonico, come dichiara Franco Farinelli nel suo libro I segni del Mondo (Farinelli 2009). I modi d’azione e di relazione praticati all’interno della città post moderna moltiplicano le incongruenze derivanti dall’affrontare le problematiche di ricerca che si rifanno alla dimensione prestazionale come descrive efficacemente Kevin Lynch (Lynch 1990) piuttosto che alla verifica scientifica delle istanze studiate.
Il tema dell’abbandono, strettamente correlato alla pratica dell’insoluto sostanziata dal dato numerico –1.200.000 unità immobiliari invendute (Fonte FIAIP)– impone una ridefinizione dei confini disciplinari tesa a superare la diffusa immagine neo-romantica che associa al paesaggio abbandonato della civiltà industriale come dei quartieri residenziali popolari un valore estetico di segno positivo. L’abitudine percettiva ad un paesaggio degradato – che in epoca recente è stato veicolato come immagine esotica e di grande appeal mediatico – viene troppo spesso associata ad una sensibilità verso l’ambiente circostante mentre si tratta, molto più semplicemente, di impotenza attuativa. L’inquietudine veicolata dall’estetica delle periferie non può evidentemente essere soppressa né arginata e viene pertanto rimossa attraverso un processo inconscio che ne vanifica la reale comprensione: nessuna analisi viene prodotta da chi, con questi ambienti, si relaziona quotidianamente.
Non si tratta di vedere, pensare o rievocare l’orizzonte dell’abbandono come si trattasse di un frame tratto da 1997: fuga da New York (Carpenter 1981), magistrale pellicola incentrata sul collasso della civiltà tecnologica. Si vorrebbe invece affrontare, più pragmaticamente, l’abbandono come soggetto spogliato della consueta aura romantica, per riuscire a dotarsi degli strumenti culturali ed immaginifici necessari ad individuare i luoghi dell’abbandono nella propria prossimità fisica e culturale. Capannoni industriali, quartieri dormitorio, villette a schiera, brani d’infrastrutture incompiute, friches industrielles, nel racconto frammentario e confuso del territorio rappresentano oggi i principali topoi in cui e su cui operare una misurazione. La città, evolutasi in sistema relazionale informatico, già orfana della socialità spontanea a causa della scarsa qualità ambientale del paesaggio urbano, trova nei territori abbandonati o mai utilizzati il paradigma di una urbanistica diffusa, simulacro della fine del sistema Fordista.
Tra i temi prioritari nell’agenda progettuale di architetti ed urbanisti dovrebbe emergere la riconsiderazione del contesto costruito – soprattutto l’edilizia di epoca recente – percepito come un archivio dell’invenduto, negozio di bric à brac, discarica a cielo aperto e fonte di approvvigionamento culturale, fisico e processuale per chi ancora ritiene di voler assimilare la disciplina ad un’azione del fare, al verbo edificare. Si tratta innanzitutto di riformulare un vocabolario visuale che trovi la propria ragion d’essere principalmente in un’azione di sensibilizzazione, in una riconversione sociale prima ancora che tecnologica; come nella Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto (1967) o nel cinico auto-determinismo di Lucy Orta, l’architettura deve sedimentare funzionalmente le proprie morfologie per strutturarsi coerentemente all’interno della contraddittoria complessità del quotidiano. Poi, ancora più profondamente, occorrerebbe attivare il dubbio della necessità di una maturazione politica non solo etica, ma concettuale, di senso, indispensabile – riteniamo – ad una verifica sul piano della realtà rispetto alle effettive necessità, ai compromessi e alle difficoltà in cui versano sia la professione del progettista sia la posizione del cittadino.
Edipica delle città
Se non si costruisse più, forse, non sarebbe poi così male. (Musale 2012)
La necessaria ridefinizione del concetto di abbandono apre nuove prospettive di riflessione legate alla inevitabile fine del sistema urbano modernista utilizzato fino ad oggi, funzionali a ristrutturare un pensiero critico efficace nella comprensione del futuro prossimo. Costruire su un tessuto complesso e sfaldato dagli infiniti compromessi di una legislazione legittimata, attraverso il patto che vede le economie locali sostentate dal negozio degli spazi, dall’equivoco del mercato dell’espansione residenziale è un vincolo imprescindibile dell’architettura che, troppo spesso, è orientata a risolvere con l’edificazione di oggetti la disgregazione del senso dei luoghi. Il regime del controllo, il ricorso ai masterplan, le infinite modifiche dei piani regolatori sono tutti sintomi di una malattia etica ed estetica cronicizzata e diagnosticata in ogni forma, in ogni modo, da quella teoria che sembra non poter nulla nei confronti della prassi del “fare senza pensare”. La scusa troppo spesso addotta da chi non vuole prendere coscienza del male endemico della disciplina è legata a fattori materiali come la difficoltà che gli architetti riscontrano nel portare a compimento un progetto, nel trovare commesse e occasioni di lavoro. Occorre smascherare questo statuto d’impotenza e riflettere sulle vere cause che hanno prodotto una insensibilità ambientale oggi difficilmente arginabile se non attraverso l’utilizzo – quasi colpevole – del concetto di sostenibilità. Concetto ambiguo, non facilmente classificabile e riduttivo rispetto a quello di ecologia.
Nel suo libro del 1971 Los Angeles: The Architecture of Four Ecologies, Reyner Banham utilizza la parola ecologia per spiegare come i complessi sistemi che regolano la città californiana possano essere riferiti ad una serie di fattori storici che, solo in superfice, sembrano essere stati annullati dalle pratiche di vita novecentesche. L’ecologia è uno strumento del dispositivo di analisi che Banham introduce per spiegare una realtà apparentemente lontana da quella europea che è sempre stata il modello di verifica per ogni teoria sulla città. Ripensare oggi all’Autopia sarebbe un modo per comprendere come molti quesiti siano già stati posti in un periodo che ormai potremmo considerare storicizzato. Eppure la deriva dei luoghi continua ad infestare il nostro presente continuamente allertato da una profezia che realizza la propria tragedia nel tentativo estremo di evitarla. Le città sono attraversate da un complesso edipico irrisolto che viene continuamente disvelato dall’atto mancato dell’architettura: costruire secondo le regole di mercato equivale ad uccidere la complessa cultura urbana perpetrando un incesto che darà luogo ad una progenie maledetta. Le periferie sono figlie di una coazione a ripetere che ne decreta la dannazione sul piano fisico e nell’ambito del significato. Chi le abita è accecato tanto quanto chi tenta di giustificarne l’esistenza attraverso un lavoro di pacificazione estetica. Il dramma, per sua natura, è irrisolvibile.
La forza del singolo che si pone in contrasto rispetto all’azione del fato sembra ridicola – come una formica di fronte alla montagna – eppure una responsabilità del genere andrebbe condivisa. Se i professionisti della progettazione non fossero così occupati a calcolare il rendiconto e il profitto della speculazione finanziaria/fondiaria si potrebbe virare a quella politica per interrogarsi su come sarebbe meglio far valere la propria voce. In caso contrario l’architettura rischia di essere la meno potente delle arti e la più impotente delle attività: creare spazi abitativi, commerciali, infrastrutturali che distruggono il senso dei luoghi non è un buon biglietto da visita per i progettisti. E dovrebbero rivedere le proprie posizioni anche coloro i quali hanno assunto il principio del programma come unica fede del progetto: il cinismo che pervertiva il senso della domanda non è stato sufficiente per invertire la tendenza al massacro. A ben guardare anche Rem Koolhaas – uno tra gli ultimi teorici del XX secolo – ha saputo controllare la macchina progettuale solo fino ad una certa scala e soprattutto, solo fino ad una certa complessità. Il progetto del masterplan per Breda (2000), nonostante le premesse imitative del modello campus universitario, propone una configurazione dello spazio pubblico indifferenziata che compromette sostanzialmente ogni forma di appropriazione da parte dei residenti. Lo spazio architettonico, dilatatosi alle dimensione urbana, non restituisce la ricchezza relazionale facilmente riscontrabile negli edifici oggetto realizzati pochi anni prima. Come ricorda lucidamente Sara Marini nel suo ultimo libro, Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, la debolezza dell’impianto urbano deriva anche da una mancata comprensione degli oggetti che lo popolano e delle loro relazioni
Franco Farinelli, I segno del mondo, Città di Castello, 2009, p.53
Kevin Lynch, Progettare la città : la qualità della forma urbana, Milano, Etas Libri, 1990
Sara Marini, Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, Macerata, 2011, p.40
Guido Musante, Domus 957, anno 2012
Silvano Tagliagambe, Lo spazio intermedio, Milano, Egea, 2008, p.119
Fonte FIAIP (Audizione informale, 27 marzo 2012, dei rappresentanti
della Fiaip presso la Commissione VIII Ambiente e Territorio della
Camera dei Deputati)
Lucy Orta, progetta indumenti per il cittadino del terzo millennio,
funzionali tanto alla sopravvivenza urbana (Survival Kits) tanto alla
creazione di nuove dinamiche sociali (Collective Wear), assecondando
l'autodeterminazione del cittadino globale.